La lingua nel ghetto
Nel ghetto anche la lingua subiva l’influenza della cultura di origine degli abitanti. Il dialetto giudaico-romanesco, che una volta era diffuso tra i membri della comunità, non era troppo dissimile da quello “classico” parlato altrove a Roma, ma faceva uso di molti vocaboli diversi, di chiara origine ebraica.
Il dialetto risale a un lessico di epoca medievale (a metà tra il latino e il volgare) poi mescolato con termini di origine ebraica, spagnola e del sud d’Italia, dopo l’arrivo a Roma dei profughi del bacino Mediterraneo.
Oggi, nei vicoli del ghetto, questo dialetto si ascolta sempre più di rado, avendolo ormai quasi completamente sostituito l’italiano. Va segnalato un lodevole tentativo di mantenerne viva la memoria da parte di un ristretto numero di studiosi, per mezzo di iniziative culturali quali letture in pubblico e opere teatrali.
La cucina ebraica, il mercato del pesce
Parlando invece di cucina ebraica, il brodo di pesce, specialità culinaria oggi di nuovo in voga e considerata anzi una prelibatezza, nasce dalla prossimità del ghetto romano con la zona più degradata e più sporca della città, accanto al complesso monumentale augusteo, attorno al Teatro di Marcello che, durante il Medioevo, divenne il mercato del pesce di Roma. La vicinanza del Tevere e del porto fluviale di Ripa Grande garantivano un comodo approdo alle barche provenienti da Ostia, pronte a riversare sul mercato il pesce migliore.
Tutti gli scarti venivano accatastati nei pressi della chiesa di Sant’Angelo in Pescheria (v. parte IV). Tutte le donne ebree (la maggior parte della popolazione era assai povera) andavano a raccogliere gli scarti del mercato: teste, lische e pesci, o parti di pesce, meno nobili. L’unico modo di utilizzare gli scarti era cucinarli con l’acqua. Nacque così uno dei piatti della Roma popolare ed in particolare del ghetto: il brodo di pesce, allora una ricetta semplice e povera ed ora uno dei piatti più richiesti nei ristoranti della zona.
Sempre a riguardo del mercato del pesce, sulla parte destra del porticato di Sant’Angelo è murata una lapide (v. foto), di 1,13 metri, con una iscrizione latina che ricorda l’obbligo di consegnare ai Conservatori dell’Urbe, magistratura elettiva cittadina, la testa ed il corpo, fino alla prima pinna (usque ad primas pinnas inclusive), di ogni pesce più lungo della lapide stessa. La parte richiesta è spesso la parte più gustosa del pesce.
Qualche ristorante in zona mantiene viva la cucina giudaico-romanesca, una tradizione vecchia di secoli che fonde tipici piatti ebraici con ricette romane, fra cui i famosi carciofi fritti alla giudìa, lo stracotto di manzo, gli aliciotti con l’indivia e la concia (marinata di zucchine). Invece i cosiddetti “fagottari”, clienti che usavano portare il proprio pasto in un fagotto, per cui ordinavano solo il vino, non si incontrano più; questa abitudine è ormai scomparsa.
Una delle cose che in assoluto amano più fare gli ebrei romani la domenica mattina è trotterellare in mezzo ai rivoli di Porta Portese, attraversare il Tevere proiettandosi all’ingresso del Ghetto ebraico e passeggiare lentamente per il Portico d’Ottavia a rubare con lo sguardo angoli di storia tra i suggestivi vicoli che qui confluiscono, l’imponente Sinagoga e i resti romani del foro Piscario. Quanta Roma c’è in questi pochi metri quadrati, e si respira tutta!
Come non parlare poi dei dolci tipici della tradizione ebraica. Nel cuore del ghetto vi è il famoso forno Boccione, la cui pasticceria, davvero unica, ti tocca l’anima.
Tutto è intatto e tutto proietta a inizio ‘900: l’ingresso, la vetrina, i banconi, gli scaffali, il ridottissimo spazio-cliente, il laboratorio sul retro e – intuiamo – la fila che si crea all’entrata per accaparrarsi la propria razione di dolci ebraici, rigorosamente kosher, cioè preparati secondo le norme ebraiche della Torah, fatti secondo ricette che sono state tramandate nei secoli , si dice dal Medio Evo.
Straordinarie le pizze di “Beridde”, preparate con canditi, mandorle, pinoli e uva passa. Famosi i suoi biscottini, dolcetti duri a forma di rondelle, delizia di mandorle, cacao e cannella. Da non dimenticare inoltre le squisite torte, irriproducibili altrove, quali crostate chiuse, ricoperte di pasta, con ripieno di ricotta e marmellata di visciole (una specie di ciliegie selvatiche) o ricotta e cioccolato. La varietà offerta segue la stagionalità e soprattutto è legata alle diverse festività ebraiche
La domenica, intorno alle 11, la coda è giusto un lungo e snello serpentello che spacca a momenti in due la strada fronte ingresso.
Gli odori poi inebriano tutto il Portico, e con il Portico i passanti. Inutile a questo punto qualsiasi altra parola per cercare di descrivere gusto e sapori uniti a genuinità e dedizione che trapelano da chi storicamente – di generazione in generazione – qui tutto muove.
Anche se del vecchio ghetto rimangono poche tracce, si riesce comunque a percepire l’anima sempre viva dell’antico quartiere che conserva un’atmosfera particolare, un misto di storia, architettura e tradizioni secolari, memoria di un’epoca e della storia di un popolo sempre vivo, sopravvissuto alle guerre, alle persecuzioni di ogni genere perpetrate in ogni epoca.