Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.
(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller (Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984) è stato un teologo e pastore protestante tedesco, oppositore del nazismo)
Purtroppo, infatti questa pacifica convivenza durò soltanto trent’anni: Benito Mussolini, capo del governo e del fascismo al quale anche alcuni ebrei avevano aderito, ruppe la tregua con uno dei più vergognosi fra i suoi provvedimenti: la promulgazione delle leggi razziali del 1938.
Alleatosi con la Germania di Hitler il Fascismo pubblica il “Manifesto della razza”, sottoscritto da molti scienziati dell’epoca: viene dichiarato che “gli ebrei non appartengono alla razza italiana”. I rastrellamenti nel Ghetto e in altri quartieri della città rimangono tuttora una delle pagine più buie e dolorose della storia.
Espulsi dalle scuole, dal lavoro, alle professioni, privati dei beni, sottoposti a umiliazioni e restrizioni, gli ebrei tornavano in un ghetto senza mura visibili, ma chiuso ancora più saldamente di un tempo.
A Roma, la reazione più evidente e tangibile fu la creazione della scuola media ebraica in tempi brevissimi (quella elementare già esisteva) perché i ragazzi ebrei romani, cacciati dalle scuole pubbliche, potessero ancora studiare. E, meritata beffa del destino per un regime stupido quando violento e prevaricatore, studiarono con docenti di primissimo ordine, talvolta noti a livello internazionale: quegli stessi che, perché ebrei, erano stati espulsi dalle cattedre scolastiche e universitarie senza che una voce si levasse, fra i loro colleghi, per difenderli.
L’importanza delle cosiddette leggi razziali nell’esistenza di ogni famiglia di ebrei italiani è quella di uno spartiacque aperto fra la fragile convinzione di essere finalmente partecipi della vita di un paese, da secoli considerato proprio, e l’espulsione con le leggi emanate dallo stesso Stato, che si era amato e servito, dalla vita civile. Tutto questo, dalla memoria dei sopravvissuti e nel ricordo dei morti (2091 deportati da Roma) incide sulle generazioni dei figli e dei nipoti. Chi non ha vissuto direttamente quella tragedia ne ha però sentito molto più che l’eco nei racconti di nonni e genitori e ha fatto propria la loro storia, assumendosi il compito di non farla dimenticare. Vi è stato un notevole sforzo di dignità da parte dei cittadini ebrei, anche in tempi che si facevano giorno dopo giorno più difficili e bui. Anche quando il fascismo obbligò i “parassiti” ebrei romani al lavoro coatto sulle sponde del Tevere.
Vennero poi, per Roma, i nove terribili mesi dell’occupazione nazista.
Venne il 16 ottobre 1943. Era un sabato mattina, un sabato di guerra. Ma era anche il giorno del riposo per la numerosa comunità ebraica romana. Era lo shabbat e lo era per tutte quelle famiglie riunite in quel fazzoletto di terra divenuto ghetto di Roma nel 1555 per volere di papa Paolo IV. Intere generazioni di ebrei si erano succedute nel corso dei secoli ed avevano attraversato ed accompagnato le vicende romane e nazionali. Ma quello era anche il terzo giorno della festa di Sukkòt, celebrazione che ricorda gli anni passati dagli Ebrei nel deserto del Sinai, subito dopo la liberazione dalla schiavitù egiziana. Sukkòt significa tenda, cioè nomadismo, precarietà, e raccoglie la memoria atavica dei giacigli di fortuna utilizzati dal popolo ebraico prima di raggiungere la Terra Promessa.
Quella mattina del 16 ottobre 1943 i termini ‘Shabbat’ e ‘Sukkòt’ rimandavano al viaggio in un’unica direzione, quella verso Auschwitz, senza giacigli e senza il ritorno verso la propria terra. Il cielo non prometteva nulla di buono. Il tempo era piovoso e già verso le quattro della notte il quartiere ebraico era stato cinto da numerosi mezzi militari tedeschi che si erano appostati lungo le vie di accesso del ghetto. I nazisti effettuarono una retata che, pur interessando molte altre zone di Roma, ebbe il suo epicentro nell’ex ghetto, ove furono catturati oltre mille ebrei (anche grazie al censimento degli ebrei svolto anni prima dal Governo Mussolini). Il capitano Theo Dannacker, chiamato a Roma da Eichmann nei giorni precedenti, aveva passato ore a studiare attentamente la mappa della città ed aveva disegnato dei cerchi concentrici sui quartieri e sulle strade abitate dagli ebrei. Ventisei zone in tutto. E per svolgere al meglio quel lavoro certosino si era affidato al censimento eseguito nel 1938 dall’Ufficio Demografia e Razza, presieduto dal Prefetto Le Pera. Dannacker aveva segnato la lista degli ebrei ed aveva individuato sulla cartina le zone di Roma in cui questi vivevano.
Poco più di un centinaio di SS della Judenoperation, addette al rastrellamento del ghetto di Roma, quella mattina iniziarono l’operazione alle 5.15. E non erano bastati i cinquanta chili di oro raccolti dalla comunità ebraica e consegnati ai Tedeschi un mese prima.
Quelli erano stati solo un diversivo, l’antipasto di un’azione supportata dall’idea di sterminio e cancellazione. Avevano chiesto di versare quel quantitativo d’oro entro 36 ore per scongiurare la deportazione di duecento ebrei! Eppure, nonostante la pesatura avvenuta in Via Tasso, i Tedeschi quel giorno di ottobre decidono di rastrellare il quartiere ebraico romano. Bussano alle porte, le aprono, le sfondano mostrando un biglietto bilingue in cui si impone a quelle famiglie di lasciare le abitazioni in venti minuti. Devono preparare le valigie, prendere delle provviste per otto giorni e chiudere a chiave le case. Come se poi avessero il beneficio e la possibilità di rivederle. Magari al ritorno.
Alle 14 l’operazione è conclusa. Dei 1259 ebrei condotti nel Collegio Militare di Via della Lungara ne rimangono 1022. Alcuni di essi, di razza mista o cristiana, vengono liberati. Gli altri, rimasti nelle mani dei Tedeschi, vengono stipati sui 18 vagoni del treno piombato che parte dalla stazione Tiburtina. Quattro giorni dopo, il 22, arriveranno a destinazione. Quella finale. “Alle aussteigen” (Tutti fuori) ripetevano ai sopravvissuti che scendevano dal treno avvolti dalla luce irreale del campo di sterminio, mentre i loro correligionari con gli abiti a righe e la stella di David rimuovevano dai vagoni i corpi di chi non era riuscito a sostenere quel viaggio di quattro giorni.
Ecco un racconto di testimoni sopravvissuti al rastrellamento:
Al campo il dottor Mengele provvede da subito a selezionare gli abili al lavoro dal resto degli ebrei. I due gruppi vengono divisi: gli inabili vengono trasportati sui camion per raggiungere i ‘campi di permanenza’, gli altri devono dirigersi verso i campi di lavoro a piedi. Ma, se stanchi, possono usufruire anche loro degli autocarri. Così salgono su quei mezzi altre 250 persone, portando il numero a 839.
La loro destinazione non è il campo e non sono le baracche; li attende un destino comune che si chiama camere a gas. E tra loro c’è Sergio Pace, abile al lavoro ma salito sul camion per rimanere insieme ai suoi genitori. C’è la giovane donna cattolica, dichiaratasi ebrea, per non abbandonare un bambino orfano affidato a lei. C’è il figlio di Marcella Perugia, nato appena il 17 ottobre. E ci sono altri 206 bambini che hanno terminato la loro vita lì. A ritornare saranno soltanto in diciassette, tra cui una donna: Settimia Spizzichino 24 anni, 30 chili.
Nel gennaio 2003 viene istituita la Giornata della Memoria, che viene celebrata il 27 gennaio.
Eccidio delle Fosse Ardeatine
Un altro terribile avvenimento segnò la comunità ebraica: l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Fu l’uccisione di 335 civili e militari italiani, prigionieri politici, ebrei o detenuti comuni, trucidati a Roma il 24 marzo 1944 dalle truppe di occupazione naziste come rappresaglia per l’attentato partigiano di via Rasella, compiuto il 23 marzo da membri dei GAP romani, in cui erano rimasti uccisi 33 soldati del reggimento “Bozen” appartenente alla Ordnungspolizei dell’esercito tedesco. L’eccidio non fu preceduto da nessun preavviso da parte nazista.
Per la sua efferatezza, l’alto numero di vittime e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, l’eccidio delle Fosse Ardeatine divenne l’evento-simbolo della durezza dell’occupazione tedesca di Roma. Fu anche la maggiore strage di ebrei compiuta sul territorio italiano durante l’ Olocausto: almeno 75 delle vittime erano in stato di arresto per motivi razziali.
Le Fosse Ardeatine, antiche cave di pozzolana situate nei pressi della via Ardeatina, scelte quale luogo dell’esecuzione e per occultare i cadaveri degli uccisi, nel dopoguerra sono state trasformate in un sacrario-monumento nazionale. Sono oggi visitabili e luogo di cerimonie pubbliche in memoria.
E, finalmente, il 25 aprile 1945 arriva la Liberazione e con essa, la gioia e la commozione di tutti, ma soprattutto degli ebrei romani.
Nell’ambito delle iniziative che sono state intraprese dopo la guerra per ricordare chi non è più tornato a casa, è bene descrivere il fenomeno delle pietre d’inciampo.
L’iniziativa è partita a Colonia nel 1992 e ha portato, a inizio 2019, all’installazione di oltre 71 000 “pietre”. La cinquanta millesima pietra è stata posata a Torino. I blocchetti si possono trovare in quasi tutti i paesi che furono occupati durante la seconda guerra mondiale dal regime nazista tedesco ed anche in Svizzera, Spagna e Finlandia. Finora solo l’Estonia , Bielorussia e alcuni paesi balcanici non hanno aderito al progetto.
La memoria consiste in una piccola targa d’ottone della dimensione di un sampietrino (10 × 10 cm), posta davanti alla porta della casa in cui abitò la vittima del nazismo o nel luogo in cui fu fatta prigioniera, sulla quale sono incisi il nome della persona, l’anno di nascita, la data, l’eventuale luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta. Questo tipo di informazioni intende ridare individualità a chi si voleva ridurre soltanto a numero. L’espressione “inciampo” deve dunque intendersi non in senso fisico, ma visivo e mentale, per far fermare a riflettere chi vi passa vicino e si imbatte, anche casualmente, nell’opera.
Le pietre d’inciampo vengono posate in memoria delle vittime del nazismo, indipendentemente da etnia e religione. La prima, ad esempio, fu posata a Colonia in ricordo di mille tra Sinti e Rom deportati nel maggio del 1940.