Nei primi secoli e durante il Medioevo , gli ebrei non ebbero difficoltà di convivenza con la popolazione cristiana. Le difficoltà giunsero nel tardo Rinascimento quando i papi, dopo lo scisma protestante e sull’onda della successiva Controriforma, ebbero aspri atteggiamenti verso chiunque non aderisse all’ortodossia cattolica.
Inoltre gli ebrei dovevano portare un distintivo che li rendesse sempre riconoscibili: un berretto giallo gli uomini, un altro segno di facile riconoscimento le donne, di colore azzurrino.
Leggi speciali che assai spesso cambiavano col succedersi dei vari papi, limitavano le attività che i membri della comunità potevano ufficialmente svolgere. Tra i lavori a cui erano maggiormente dediti i membri della comunità c’era quello dello stracciarolo, cioè lo straccivendolo che batteva le strade con un carretto al grido di aèo! e in giudaico-romanesco era detto peromante, cioè colui che andava in giro per Roma.
Da qui l’origine, in Roma , della tradizionale presenza degli ebrei nel campo del commercio dell’abbigliamento e di alcuni accessori.
Le donne ebree erano particolarmente abili nel cucito, per cui quella della rammendatrice era un’altra frequente occupazione. E tra i mestieri tipici c’era anche quello del falegname: degli ebanisti ebrei, di cui era nota l’abilità, si servivano anche famiglie nobili.
Ciò non toglie che vi fossero nella comunità anche esponenti più benestanti, dediti ad attività quali l’affitto degli abiti eleganti da cerimonia a chi non se ne poteva permettere l’acquisto, ed anche il prestito di denaro, verso i quali tuttavia restavano in vigore gli stessi provvedimenti restrittivi di cui sopra, validi per qualsiasi ebreo.
Era loro proibito di possedere beni immobili. Ciò contribuì, a partire dagli ebrei dell’epoca, a rivolgersi verso i beni mobili per eccellenza: l’oro e il denaro. Da qui trae origine il possesso di liquidità che fu utile agli stessi papi per ottenere prestiti.
Le case dove abitavano venivano prese in affitto da proprietari non ebrei, che le affittavano ai membri della comunità a prezzi calmierati da una legge emanata sotto papa Pio IV (1561) e chiamata Ius Gazzagà (nome per metà latino e per metà ebraico, da chazakah, “possesso”, corretto secondo la pronuncia romana). Prevedeva che l’affitto, una volta stabilito, rimanesse bloccato in perpetuo e che il contratto di locazione passasse in eredità ai discendenti del primo locatario, per cui molti appartamenti venivano occupati dalle stesse famiglie per generazioni e generazioni, a prezzi che col tempo divennero irrisori.
Tuttavia l’affollamento all’interno dell’enclave era tale che di tanto in tanto si rendeva necessario ampliare le case, costruendo altane; il risultato era un conglomerato di tuguri, strettamente addossati gli uni agli altri, e frequentemente comunicanti con passaggi interni ed anche esterni, i cosiddetti passetti (che prendevano il nome da quello famoso di Borgo). In tempi di persecuzione costituivano una via di fuga per gli abitanti. La Descriptio Hebreorum del 1733″, il libro a cura di Angela Groppi per la casa editrice Viella, rappresenta l’unico “censimento” della popolazione ebraica residente nel ghetto di Roma fino a oggi conosciuto per il periodo che va dal 1555 (data della creazione del «claustro degli ebrei») al 1796 (anno a cui risalgono gli elenchi degli appartenenti alle singole Scole, che forniscono una cifra complessiva di 3.617 individui). I saggi presenti nel volume illustrano il contesto in cui questo documento ha avuto origine, contribuendo a delineare il quadro complesso e talora drammatico della vita degli abitanti del ghetto di Roma nel Settecento. Poiché il ghetto si trovava a ridosso del Tevere, a causa del fango del fiume, le facciate degli edifici assumevano una colorazione a strati che corrispondeva alla cronologia delle ultime piene. Inizialmente l’unica risorsa di acqua potabile per la comunità era rappresentata da una bella fontana progettata da Giacomo Della Porta, situata nella metà settentrionale di piazza Giudea, di fronte al portone principale del ghetto, quindi al di fuori dei confini: le condizioni igieniche all’interno del recinto dovevano essere spaventose. Durante l’epidemia di peste del 1656, 800 abitanti su 4000 morirono a causa dell’epidemia. Solo molti anni dopo l’enclave fu raggiunta dall’acqua corrente grazie ad una piccola fontana a muro in piazza delle Scuole e altre due fontanelle semplicissime in piazza delle Tre Cannelle (così detta proprio dalla fontana) e in vicolo de’ Savelli. Inoltre, essendo questo uno dei punti altimetricamente più bassi di Roma, un’altra costante minaccia era il rischio di finire sommersi durante i frequenti straripamenti del Tevere. Per i molti ebrei romani, stipati all’interno di un’area la cui superficie era circa otto acri, disporre di una fontana nelle vicinanze era senza dubbio una necessità primaria. Ma quando il primo progetto di Gregorio XIII stabilì proprio questa piazza come punto di distribuzione dell’acqua di Salone, la famiglia Mattei riuscì a fare in modo che la fontana fosse costruita davanti alla propria residenza. In cambio la famiglia si impegnava a pavimentare la piazza e a tener pulita la fontana. E fu così costruita nel 1581, sempre su progetto di Della Porta, la graziosa Fontana delle Tartarughe. La fontana è annoverata fra le più belle di Roma. I lavori furono condotti dallo scultore Taddeo Landini.
Qualche anno dopo piazza Giudia fu nuovamente scelta come sede di una fontana. Nonostante lo schema ripetitivo, la forma della vasca e quella dei solidi gradini su cui poggia è piuttosto interessante. Il catino sommitale è decorato con quattro inquietanti teste di Gorgone. Questo elemento fu rimosso nel 1924 quando la fontana venne smontata nel corso delle estensive opere di trasformazione del quartiere, in seguito alle quali piazza Giudia scomparve. Il catino fu temporaneamente collocato su una diversa fontana, sul colle Gianicolo; ma quando sei anni dopo si decise di ricomporre l’opera nella sua attuale collocazione, davanti a Palazzo Cenci Bolognetti (poco distante dalla sua posizione originaria), le fu restituita anche la parte superiore.
Nel 1572 papa Gregorio XII, al secolo Ugo Boncompagni, impose agli ebrei romani l’obbligo di assistere settimanalmente, nel giorno di sabato, a prediche che avevano il fine di convertirli alla religione cattolica. L’obbligo fu revocato solamente nel 1848 da Pio IX. Queste “prediche coatte”, che non ebbero i risultati sperati, si tennero, nel corso dei secoli, in sedi diverse, tra le quali: Sant’Angelo in Pescheria, San Gregorio della Divina Pietà ( famosa perché vi erano tenute le prediche obbligatorie che sono anche ricordate in una scena del film “Nell’anno de Signore” di Luigi Magni) e cappella di Santa Maria del Carmine e del Monte Libano, anche nota come tempietto del Carmelo. Secondo quanto afferma un’antica tradizione, gli ebrei si preparavano all’ascolto tappandosi le orecchie con la cera.
Sant’Angelo in Pescheria
Papa Stefano II fece portare qui, nel 752, le reliquie di Santa Sinforosa, San Getulio e dei loro sette figli. Nel 1610 ne venne rinvenuto il sarcofago, recante l’iscrizione: Hic requiescunt corpora SS. Martyrum Simforosae, viri sui Zotici (Getulii) et Filiorum ejus a Stephano Papa translata.
Costruita nell’ VII secolo, questa chiesa deve il suo nome “in pescheria” al fatto che nelle sue vicinanze vi era il mercato del pesce che si svolgeva nel vicino Portico d’Ottavia.
A Sant’Angelo in Pescheria è legato, inoltre, un ricordo storico relativo ad un personaggio importante del medioevo romano: Cola di Rienzo che, dalla mezzanotte della vigilia di Pentecoste del 1347 sino alle dieci del mattino seguente, assistette in questa chiesa a trenta messe dello Spirito Santo per poi salire in Campidoglio, scortato da un centinaio di uomini e preceduto da tre gonfaloni, ove proclamò, di fronte al popolo romano, i suoi ordinamenti dello buono stato
La navata laterale sinistra, al principio della quale si trova l’ingresso ad un piccolo magazzino che in origine era il basamento del campanile romanico, accoglie delle opere d’arte di notevole interesse. Nella prima campata si trova l’altare del Crocifisso. Esso è una delle opere principali della chiesa ed è costituito da un tabernacolo barocco in stucco con dipinti a finto marmo negli scomparti laterali, e di angeli sulle lesene. Ai suoi lati ci sono le due statue settecentesche in gesso dipinto della Madonna e di San Giovanni Evangelista.
San Gregorio al Ponte Quattro Capi (ora San Gregorio della Divina Pietà)
La sua origine è antichissima, ma non se ne ha nozione esatta che nel 1403. Fu edificata sulle case della gens Anicia, e più tardi fu chiamata Frangipane e dedicata a san Gregorio perché nelle vicinanze il padre del santo possedeva una casa. Nel 1729 la chiesa fu restaurata su progetti di Filippo Barigioni, per incarico di papa Benedetto XIII Orsini di Gravina e data alla Congregazione degli Operai della Divina Pietà, da cui il nome ; è ancora presente, sul lato destro della chiesa, l’elemosiniera originaria. Andrea Casali vi dipinse San Filippo Neri in estasi e due ovali raffiguranti santi francescani. Nel1858 fu restaurata nuovamente e vi fu apposta sulla facciata una iscrizione bilingue, ebraica e latina, con un passo della Bibbia, le parole del secondo versetto del capitolo sessantesimo quinto d’Isaia: ”Io stendo tutto il giorno la mia mano ad un popolo disobidiente, il quale batte una via la quale non è la retta”
Tempietto del Carmelo La cappella di Santa Maria del Carmine e del Monte Libano
Anche nota come tempietto del Carmelo era un piccolo luogo di culto cattolico della città di Roma, oggi sconsacrato nel rione Sant’Angelo in piazza Costaguti.
La cappella venne costruita nel 1759 per interessamento dei devoti della Vergine Maria che abitavano nell’area, e fu restaurata nel 1825, come ricorda l’iscrizione ancora in parte leggibile sull’architrave