8° Convegno Donne e Religioni
Fare la differenza
Quando nel 1995 decisi di scrivere una master thesis su Hannah Arendt all’Università di Georgetown, tesi dal titolo “Hannah Arendt on America”, non pensavo che questa ricerca sarebbe stata il punto di partenza per un lungo viaggio nel pensiero della Arendt. Per me, allora, era innanzitutto un modo per chiudere in bellezza una parentesi diplomatica di 4 anni nel paese dell’Uncle Sam.
Rileggendo il mio testo recentemente mi sono accorta di quanto il pensiero della Arendt fosse ancora incredibilmente attuale anche se lei morì prima della caduta del Muro di Berlino, prima dell’11 settembre, prima dei social network, prima di tante cose che fanno parte del nostro mondo di oggi. Le sue riflessioni e il suo sguardo sul mondo, applicati agli eventi di oggi, permettono sempre ancora di capire e di dare un senso alla realtà che ci circonda.
Ho scelto di parlare di Hannah Arendt in questa breve relazione perché il titolo di questo convegno, fare la differenza, corrisponde a quello che la Arendt è stata per me: ha indubbiamente fatto una differenza.
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Per cominciare, qualche cenno biografico. Hannah Arendt nacque il 14 ottobre del 1906 a Hannover. La sua famiglia, di estrazione borghese, veniva da Königsberg (oggi Kaliningrad) dove ritornò dopo che il padre si ammalò. Paul Arendt morì quando Hannah aveva 7 anni.
In un testo manoscritto intitolato “Unser Kind” (la nostra bambina)[1], inedito prima della scomparsa di Hannah Arendt e ritrovato nella sua libreria avvolto in un pezzo di stoffa, la madre Martha consegnava ogni evento di qualche significato concernente la figlia: il peso, lo spuntare dei primi dentini, i vaccini, le malattie, lo sviluppo fisico e psichico della ragazzina e questo fino al suo dodicesimo compleanno. Purtroppo, non andò oltre.
Questo testo rivela quanto Martha Arendt, una donna colta e intelligente, fosse attenta allo sviluppo, non solo fisico, della figlioletta. Era anche una donna molto lucida che guardava alla figlia con occhio amorevole ma critico. La precocità intellettuale e gli ottimi risultati scolastici della bambina furono per lei fonte di orgoglio e quindi essa assecondò pienamente il desiderio della figlia di proseguire gli studi dopo avere conseguito la maturità.
Hannah Arendt decise di studiare filosofia, prima a Marburg con Heidegger, poi a Freiburg con Husserl. Il dottorato lo fece con Karl Jaspers a Heidelberg. Con Jaspers, e fino alla scomparsa del filosofo nel 1969, sarà legata da una profonda amicizia e una grande complicità intellettuale. La loro corrispondenza è una fonte preziosissima per capire il pensiero della Arendt e il processo della sua formazione.
L’ascesa al potere del nazismo spinse la Arendt a lasciare la Germania (“Non avevo l’intenzione di circolare in Germania, per così dire, come cittadina di seconda classe”, disse, anni dopo, in un’intervista[2]). Prima si rifugiò in Francia e, nel 1941, quando questa fu occupata dalla Wehrmacht, riuscì a partire per gli Stati Uniti dove visse fino alla morte, il 4 dicembre 1975.
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Nonostante la sua formazione, la Arendt non era una donna che pensava il mondo in termini astratti e che filosofava su qualche argomento sconnesso dalla realtà. Al contrario, i suoi testi erano ispirati dall’attualità politica e dagli eventi che erano avvenuti o avvenivano attorno a lei; il nesso tra il suo pensiero e la realtà che la circondava dimostra il suo bisogno impellente di analizzare quanto succedeva nel mondo e di rendere gli eventi e i fenomeni comprensibili a sé e agli altri. In questo senso si può dire che la Arendt fu un’analista politica e una sociologa prima di essere una filosofa.
Ed è proprio questo che rende Hannah Arendt una pensatrice ancora così attuale: l’atto di pensare non era mai fine a se stesso; per esempio, la sua ossessione a descrivere i meccanismi del totalitarismo non scaturisce solo dalla volontà di capire questi meccanismi, bensì di renderli comprensibili alle future generazioni affinché queste potessero vigilare per impedire il ripetersi di tali fenomeni. Lei lo considerava una sua responsabilità nei confronti delle generazioni future.
La Arendt non era certamente così ingenua da credere che bastasse conoscere i meccanismi del terrore per prevenirlo. Del resto, gli eventi che hanno segnato l’ultimo quarto del ventesimo secolo, il genocidio in Cambogia, quello del Rwanda, le guerre in ex-Jugoslavia, ad esempio, anche se nessuno di loro fu così “elaborato” di quanto lo fosse l’olocausto, dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, che il terrore è sempre e ovunque in agguato.
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La Arendt non si curava di quello che si poteva pensare di lei. Scrisse articoli molto controversi, in particolare quando si fece mandare dal New Yorker a seguire il processo di Eichmann a Gerusalemme. Questi testi, poi riuniti nel libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme[3], scatenò un vero putiferio per alcune sue affermazioni; lo stesso si può dire, ad esempio, di articoli che scrisse sulla discriminazione razziale in America. Ciononostante, la Arendt prese i colpi, perse anche alcune amicizie, ma rimase ferma sulle sue posizioni.
Questo atteggiamento nacque dalla convinzione che la verità doveva essere detta ad ogni costo anche se, come si direbbe oggi, non era politicamente corretto farlo. Lei non aveva paura di mettere il dito su cose che nessuno voleva vedere o sentire. C’era una certa brutalità in questo suo modo di fare un po’ oltranzista ma per lei contava mantenere la propria integrità intellettuale qualunque fossero le conseguenze. A volte era lei stessa sorpresa per alcune reazioni nei confronti dei suoi testi. La Arendt non cercava il consenso, faceva il lavoro di osservatrice attenta e di analista del mondo intorno a lei.
Nella mia vita ho sempre voluto seguire l’esempio della Arendt e capire gli eventi cercando la verità. Certo, la domanda che si pone è: cos’è la verità? Nel mio mestiere, la diplomazia, in caso di conflitto la verità dell’uno inevitabilmente si scontra con la verità dell’altro, le due verità essendo generalmente incompatibili. Col tempo e l’esperienza, mi sono accorta che in fin dei conti, la verità non conta affatto: sono le percezioni che si sostituiscono alla verità e diventano “la verità”. La percezione della verità è verità soggettiva, ma contiene per forza anche una parte di verità oggettiva. Nel mio lavoro mi sono sforzata di dare una valutazione per quanto possibile oggettiva di una problematica tenendo conto delle percezioni degli uni e degli altri. L’ho fatto anche quando sapevo che la mia analisi non andava nella direzione di quello che i miei capi volevano sentire. Questo atteggiamento non facilita certo la carriera, ma per me, e grazie ad Hannah Arendt, l’onestà intellettuale era più importante dell’opportunismo carrieristico.
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Anche se Hannah Arendt è più conosciuta per i suoi scritti sul totalitarismo e sulla questione ebraica, ha scritto opere e numerosi articoli sull’America dove si era stabilita nel 1941.
Nel suo libro Sulla Rivoluzione dice la sua grande ammirazione per i padri fondatori che concepirono lo Stato americano. Ammirava molto la rivoluzione americana che per lei fu una rivoluzione di matrice politica, perché il suo motore era il desiderio di libertà, mentre quella francese fu una rivoluzione sociale, il suo motore essendo la necessità e cioè la volontà di uscire dalla miseria. La Costituzione americana era per Hannah Arendt un modello di perfezione. La formazione intellettuale di uomini come Jefferson, Madison o Hamilton e i concetti che furono all’origine della costruzione della repubblica americana, erano per Arendt un’ideale assoluto, quello dell’antica Grecia, dell’impegno del cittadino nella vita pubblica a favore della comunità (quello che la Arendt chiamava l’azione). Per lei l’impegno pubblico, cioè l’azione, era una virtù essenziale.
Purtroppo, e lo dice in molte sue lettere e in diversi articoli, strada facendo, la rivoluzione americana perse il suo spirito e si trasformò in una repubblica che ha finito col tradire i grandi principi che furono alla base della sua fondazione.
È particolarmente il caso con il concetto del “pursuit of happiness” (il perseguimento della felicità) che figura nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. Basandosi sugli scritti di Jefferson, lei interpretava questo concetto nella sua dimensione pubblica, come il coinvolgimento del cittadino nella vita pubblica e, quindi, la sua partecipazione al decision-making process a favore della comunità. Per Arendt, questa era una delle principali caratteristiche della rivoluzione americana e proprio il punto in cui essa fallì perché, col passare del tempo, al concetto fu data una dimensione puramente privata. Fu interpretato come il diritto del singolo cittadino a perseguire i propri interessi personali. È così che il perseguimento del bene comune fu sacrificato sull’altare degli interessi individualisti e materialisti. Se uno guarda agli Stati Uniti d’America di oggi, non può che dare ragione a Hannah Arendt.
L’impegno per una causa, qualunque essa sia, che vada al di là della soddisfazione del proprio piccolo interesse privato ed egoista significa assumere una responsabilità nei confronti del mondo e contribuire a cambiare le cose in meglio. Ma oggi ne siamo ben lontani. La nostra società occidentale diventa sempre più individualista e una visione collettiva del bene comune è un concetto ormai scaduto e passato di moda.
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Ciononostante, la Arendt non era sconsolata. Nel libro Uomini in tempi oscuri[4] spiega che anche nei tempi più bui, si può aspettare un’illuminazione che non verrà dalle teorie di qualche studioso, ma dalla luce debole, incerta e fioca che alcuni uomini e alcune donne diffondano attraverso le loro vite e le loro opere. Tutto sta nel cogliere questa luce o addirittura proiettarla.
Durante l’assedio serbo a Sarajevo dal 1991 al 1995, ogni giorno un mio amico pittore bosniaco percorreva la snipper allee, sopranominata così perché era particolarmente esposta al tiro degli snipper, cercando riparo – nei punti nevralgici – dietro i cassonetti. Ogni giorno, nonostante il pericolo di venire colpito o addirittura ucciso, andava da casa sua allo studio distante sei chilometri. Non andava a dipingere, bensì a leggere, libri di Benjamin, di Kafka. Uomini che avevano vissuto nei tempi bui e che furono riferimenti importanti anche per Hannah Arendt. Nei loro testi lui trovava la forza per andare avanti e per dare un senso all’assenza di senso che lo circondava. Solo con l’aiuto di queste luci riuscì a salvarsi mentalmente.
Mi sono spesso chiesta come avrei reagito se mi fossi trovata in una tale situazione. Per me rimane, per fortuna, una domanda teorica, ma francamente non ho la risposta.
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La Arendt visse in un periodo particolarmente buio. Il totalitarismo e due guerre mondiali, l’olocausto, il più abietto dei crimini. In America ha assistito alla lotta contro la discriminazione razziale, agli inizi della disegregazione, all’era di McCarthy e la sua caccia alle streghe, all’assassinio di un Presidente, alla guerra del Vietnam al proposito della quale già si sapeva che l’Amministrazione aveva mentito, alla crisi del Watergate e al tentativo di manipolare il processo democratico. È stata una profuga e un’apolide, condizione che, finché durò, la fece soffrire molto perché le impediva di partecipare alla vita pubblica andando a votare. Si espresse su tutti questi eventi e queste situazioni sia in pubblico, con libri e articoli, sia in privato, nella sua corrispondenza. Le sue prese di posizioni erano talvolta poco ortodosse e scatenarono aspre controversie. Lei scelse di seguire quello che le dettava la sua coscienza perché i tempi bui le avevano insegnato che la capacità di scelta è la più grande libertà di cui l’essere umano disponga.
Per me, questa è la lezione di Hannah Arendt. Qualunque siano le circostanze che ognuno di noi debba affrontare, abbiamo la capacità di fare una scelta. Scegliere di sentirsi responsabili nei confronti del mondo, scegliere di essere solidali, scegliere di impegnarsi per una causa, scegliere di essere onesti con se stessi e con gli altri, scegliere la tolleranza, scegliere di accettare l’Altro, il migrante, il paria, e, naturalmente, scegliere di lasciarsi guidare dalla luce proiettata da Hannah Arendt.
Berna, agosto 2018
[1] Martha Arendt, “Notre enfant, journal”, éditions Payot & Rivages, Paris, 2017 (versione bilingue francese-tedesca).
[2] “Il pensiero plurale di Hannah Arendt”, rivista aut aut, settembre-dicembre 1990, p. 14.
[3] Milano, Feltrinelli, 1964.
[4] Milano, Spano, 1968.